Post by Sergio AudanoPosso essere d'accordo per la sintassi, ma penso converrai che per la
morfologia le analogie sono di gran lunga privilegiate rispetto alla
differenze, soprattutto nei manuali più tradizionali: si pensi
all'accostamento tra le declinazioni, alle indubbie affinità lessicali di
molti termini. infatti la presunta flessibilità della lingua greca rispetto
all'altrettanto presunta "logica" del latino era un dato riferito alla
sintassi, non certo alla morfologia!
A presto
Sergio
Approfitto di questa discussione per proporre un vecchio articolo di
Umberto Eco, risalente al 1972, in cui il semiologo confutava
brillantemente (anche se con alcuni vezzi ideologici tipici dell'epoca
in cui l'ha scritto) l'antico e radicato pregiudizio del latino come
"lingua logica" . Riproduco l'intero articolo anche perché il libro di
Eco è esaurito - uno dei pochi fuori commercio scritti dall'autore de
"Il nome della rosa" (e quindi non penso ci siano problemi di diritti
d'autore).
IL LATINO COME CASTIGO
Sono molto contento di avere imparato il latino (anche se sono
scontento del modo doloroso con cui mi è stato imposto); sono molto
contento di conoscerlo per quel tanto o quel molto che mi serve e
vorrei conoscerlo meglio: anche perché il lavoro di alcuni anni sul
latino medievale mi ha rovinato quello classico. Questa mia
professione di rispetto verso il latino non significa però che io
riteng che debba essere insegnato a tutti. Ho faticato tanto a
impararmi l'inglese da solo (e male) che mi chiedo se non sarebbe
stato meglio impararmi a scuola l'inglese, con calma e profondità, per
poi impararmi il latino da solo e probabilmente in meno degli otto
anni fatidici impiegati dal sistema scolastico per rendermelo appena
appena familiare.
Ma il discorso non è se convenga o no insegnare il latino. Tanto lo
sappiamo tutti che i propositi con cui si avanza questa proposta sono
intimamente malvagi. Si sa che il latino così come viene insegnato è
una cosa dura e umiliante e lo si ripropone per obbligare gli
studenti, che negli ultimi anni hanno rialzato un po' troppo la testa,
a fare un lavoro umiliante che li renda più umili. Perché, lo si sa,
l'umiltà è una virtù utile al giusto funzionamento della società, e
l'umiltà nasce dall'umiliazione. Lo hanno detto tutti, anche Pasolini:
"Credo che il latino sia formativo... E poiché sono per tutto quello
che riporti indietro la formazione dei giovani e l'allontani da
un'idea falsa e confusionaria di progresso...". Anche Parise:
"...farlo studiare può essere un modo per costringere questa massa di
insipidi capelloni a mettere la testa nell'acqua...".
Anche Dario Bellezza: "Poiché l'andazzo della scuola è ormai quello
che è, ben venga il latino. Studiarlo serve come una punizione a tutti
quelli che considerano lo studio qualcosa di aleatorio ed
esornativo...".
E se lo dicono costoro, che pure sono intellettuali democratici, cosa
volete che dica il ministro Scalfaro: che bisogna leggere Marx in
tedesco?
Il fatto che mi colpisce però è un altro. È l'ostinazione con cui
personaggi anche di indubbia competenza filosofica e linguistica
ricorrono ancora, a sostegno dell'insegnamento del latino (e persino
quando sarebbero propensi a mantenerne* l'abolizione), alla tesi
seguente: il latino è una lingua razionale, che insegna a ragionare.
L'unico filologo classico che abbia avuto la faccia tosta di negarlo,
e con argomenti storici, è stato Benedetto Marzullo. Ma è un
ragazzaccio**.
Ora state a sentire: dire che il latino insegna a ragionare in modo
corretto significa dire che tra la lingua e il pensiero intercorrono
dei rapporti molto precisi, il che è giusto. Ma significa dire di più:
che vi è un modo di pensare universale e che vi è una lingua che è più
universale delle altre perché i suoi meccanismi si identificano coi
meccanismi di pensiero.
Ora, che vi sia un modo di pensare universale (e cioè leggi universali
della ragione che valgono tanto per un cinese quanto per un tedesco) è
ipotesi filosofica illustre che non deve essere discussa in questa
sede, anche se può essere discussa.
Il problema, su cui la scienza linguistica contemporanea sta
discutendo, è se esistano universali linguistici - e cioè regole
morfologiche e semantiche uguali per tutte le lingue. Ma questo non
significa affermare che ogni lingua è uguale all'altra: significa al
massimo dire che vi sono strutture profonde dell'articolazione logica
del pensiero che si manifestano in modi diversi in lingue diverse. Se
ciò fosse vero, allora insegnare il latino sarebbe lo stesso che
insegnare il basco, posto che in entrambe le lingue funzionerebbero le
stesse strutture logiche di base.
Quindi dire che il latino è la lingua razionale per eccellenza non
dipende da uno sviluppo ragionato del discorso precedente: è
manifestazione ingenua dell'ignoranza di questo discorso.
I fatti (anche se storici) sono fatti: Aristotele costruisce le sue
categorie logiche sul modello delle categorie grammaticali del greco:
e siccome si trova di fronte a una lingua che funziona per
attribuzione di predicato a un soggetto, pensa che vi siano delle
sostanze a cui ineriscono delle proprietà. Se fosse partito da
un'altra lingua avrebbe filosofato nello stesso modo?
Nel medioevo i Modisti costruiscono una grammatica speculativa che
cerca di individuare modi di significare comuni a tutti gli esseri
umani; ma anche qui i modi di significare sono quelli del latino.
L'ipotesi della universalità del pensiero riposa sull'assunzione
(ingenua) che vi sia una sola lingua parlabile. I Modisti parlano il
latino e forniscono modelli di ragionamento al pensiero occidentale.
Siccome poi parlavano un latino che ad Orazio avrebbe fatto venire i
vermi ("respondeo dicendum quod"), ecco che l'ideologia della
universalità del latino classico riposa sulle conseguenze di una
estrapolazione logica compiuta sulla base linguistica di un latino che
non è quello che si vuole insegnare nelle scuole (ma che si insegnava
nelle Scholae). Splendido.
Conseguenza: il latino è la lingua del pensiero solo per chi sa solo
il latino. Chi sa altre lingue scopre che vi sono anche dei modi di
pensare diversi. Di conseguenza, il latino insegna un'ottima
disciplina logica del pensiero, ma a patto che lo studente apprenda
che ve ne sono anche altre e che quindi impari l'inglese (che non
procede per consecuzione grammaticale e logica ma per giustapposizione
di evidenze: e certe volte è più utile identificare due premesse
discordanti che trarre un'unica conclusione da un'unica premessa) e
poi la logica formale (che tratta le implicazioni logiche con regole
che non sono quelle della consecutio temporum) e poi la grammatica
trasformazionale, che magari per tanti aspetti è debitrice all'analisi
logica universalistica del latino, ma ha il vantaggio di applicarsi
alla lingua che noi parliamo e quindi insegna a ragionare in base
all'esperienza quotidiana.
Se si insiste sul latino è anzitutto perché non si sanno queste cose
(forse per colpa del troppo latino) e in secondo luogo perché la
posizione dei Modisti è la più comoda: che bello credere che le leggi
della logica siano quelle che ci ha insegnato la mamma (o il
professore di latino!).
Col che si scopre che l'ossessione del latino è una manifestazione di
pigrizia culturale, o forse di forsennata invidia: "Voglio che anche i
miei figli abbiano gli orizzonti ristretti che ho avuto io; altrimenti
non potranno obbedirmi quando li comando."
Ripeto che sarò felicissimo se, lasciati liberi di scegliere, molti
giovani sceglieranno di studiare il latino. Non solo perché è una
lingua che ha dato opere importanti e che permette di capire tanta
parte della nostra storia: ma perché permette anche di capire secondo
quale logica agisce il Tutore dell'Ordine Pedagogico.
(1972)
Umberto Eco, "Il costume di casa. Evidenze e misteri dell'ideologia
italiana", Milano, Bompiani, 1973, pp. 78-80.
* refuso per `sostenerne'.
** In realtà lo fece anche Giorgio Pasquali, nelle Pagine stravaganti
di un filologo I, Firenze, Le Lettere, 1994 (ed. orig. Sansoni,
1933-1951), "Il latino in iscorcio", pp. 123-133, dove parla di
"leggenda" su una speciale logica grammaticale che in realtà "non c'è
mai stata in latino" e nemmeno "in Cicerone è così "logica" come nei
manuali", e stigmatizza l'imposizione di "regole immaginarie-- feroci
quanto fantastiche" sovrapposte alla lingua vera degli autori latini].
In margine, vorrei ricordare che, oltre al citato articolo di
Pasquali, anche Guido Calogero aveva smitizzato la leggenda della
coincidenza tra il latino, come veniva insegnato nella scuola
italiana, e il pensiero logico. Cfr. i saggi raccolti nel volume
"Scuola sotto inchiesta", Torino, Einaudi, 1965, pubblicati per lo più
su "Il Mondo" negli anni '50-60. In particolare, "Il panlatinismo"
(pp. 35-45) e "I boati dell'Antiroma e la logica del latino", una
vivace polemica con Paratore (pp. 90-93).
Per parte mia, mi limito a sottolineare che la cosiddetta "analisi
logica", intesa come una tassonomia sintattico-grammaticale applicata
in primis alle lingue classiche e anche a quelle moderne, ha
senz'altro una sua validità, purché ripensata criticamente (come del
resto la stessa grammatica generativa mostra). L'unico equivoco che
vorrei fugare è quello per cui essa avrebbe qualcosa a che fare con la
logica vera e propria, che invece è uno strumento deduttivo di
carattere prevalentemente matematico. Confondere le due cose è tipico
delle vecchie babbione (e babbione) che la logica non l'hanno mai
studiata e non la conoscono minimamente. Provate a chiedere a una
babbiona che ripete come un pappagallo che il latino coincide con la
logica e che insegna a ragionare che cosa sia una tavola di verità,
un'implicazione materiale, una regola di inferenza o un quantificatore
universale (o, per restare nell'antichità classica, come si riconduce
alla prima figura un sillogismo in Baroco) e scoprirete un'assoluta
ignoranza.
Cfr. anche, sul rapporto tra il latino e la cosiddetta analisi logica,
questi due link:
http://www.mauriziopistone.it/discussioni/scuola.html#analisi_logica
http://www.mauriziopistone.it/discussioni/classici.html#analisi_logica_latino
Teo Orlando