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2007-05-21 07:37:33 UTC
Dal sito della Treccani incollo un interessante articolo contenente
un'intervista a Luciano Canfora sullo studio e sull'insegnamento
dell'antichità classica. Non lo ritengo del tutto condivisibile, in
particolare sulle SSIS (va detto comunque che non posso non difendere
tale istituzione, visto che dall'anno prossimo sarò supervisore del
tirocinio alla SSIS Lazio). Condivido invece in modo assoluto la tesi
per cui "abbiamo realizzato un insegnamento apparente del greco e del
latino nelle scuole" e che questo fenomeno sia una sorta di educazione
alla corruzione: vorrei che su questa lista si aprisse un dibattito
intorno a questa tesi.
Teo Orlando
http://www.treccani.it/site/Scuola/Osservatorio/scuola_osservatorio.htm
Lo studio dell'antichità classica. Conversazione con Luciano Canfora
a cura di Daniela Cavallo
Uno sguardo sull'antichità classica per la consapevolezza della
differenza tra il mondo antico e il nostro mondo; il valore dello
studio delle lingue non più viventi, tradurre il greco e il latino
come metafora di una palestra per la mente, che prevede un allenamento
per conquistare quella elasticità necessaria ad affrontare la prova
finale del salto intuitivo.
Qualche riflessione di Luciano Canfora, professore di Filologia
classica presso il Dipartimento di scienze dell'antichità
dell'Università di Bari.
Come proporre lo studio dell'antichità classica nella scuola? Quali
possono essere gli elementi di questa disciplina che la scuola
dovrebbe assicurare a tutti?
Lo studio dell'antichità classica negli ordini di scuola in cui essa è
stata presente ed è ancora presente, il cosiddetto liceo classico,
quello scientifico, e il magistrale che poi si chiamerà pedagogico, ha
sempre avuto un posto cospicuo, rilevante, tanto da incutere in alcuni
riformatori la volontà di emarginarlo, ridurlo, in omaggio a un
principio anche giusto di non creare una deformazione mentale negli
allievi; esigenza, questa, che non è recente.
I nostri ministri, riformatori, hanno forse poca cultura, poca
informazione in questo campo. Penso a Guglielmo II, invece, che
parecchio tempo addietro, nell'anno 1900, promuove, presiede una
Schulkonferenz, una conferenza sullo stato di salute della scuola
dell'Impero tedesco, e con forza chiede la riduzione delle ore
settimanali di greco nel ginnasio umanistico, equivalente del liceo
classico, in favore della lingua inglese, delle discipline
scientifiche, dicendo ai professori esterrefatti, tutti classicisti,
presenti «Io non voglio formare degli antichi greci e romani ma dei
tedeschi», che è una formulazione aspra e sintetica, ma molto
efficace; è interessante notare che grandissimi studiosi
dell'antichità vicini al potere, molto vicini al vertice politico-
culturale dell'Impero, come il grande Wilamowitz, approvarono in pieno
questa scelta in opposizione ai professori di ginnasio che invece vi
vedevano già una profanazione. Questo per dire che il problema
querelle degli antichi e dei moderni dentro l'istituzione scolastica è
sempre stato vivo, vitale, per fortuna, in quanto da quel conflitto
nasce la trasformazione.
Dove comincia la barbarie? Comincia quando si decide il più e il meno
importante, quando si comincia a fare una scala. Tutta la storia
passata è fondamentale e vive dentro di noi, per cui è un'amputazione
il decidere che un pezzo si toglie, si riduce e così via. Naturalmente
la barriera che via via si determina e nel corso del tempo diventa
sempre più problematica è quella della lingua, delle lingue antiche,
come veicolo per la comprensione. Consideriamo la frase che il grande
Wilamowitz disse quando scrisse lui stesso un libro scolastico di
greco, il Griechisches Lesebuch, il libro di lettura di greco, «Se lo
scolaro non legge correntemente il greco, questo libro è meglio non
adottarlo nemmeno»; naturalmente, lo scolaro che legge correntemente
il greco è un'utopia, oggi, ma lo era già cento anni fa. Non dobbiamo
illuderci.
Basta questo evidente limite a indurci a fare a meno della conoscenza
del mondo antico? Certamente no, anche se l'illusione molto diffusa
secondo cui lo studio linguistico sarebbe un lusso è completamente
erronea, perché dobbiamo ammettere contemporaneamente che si
tratterebbe di un inevitabile impoverimento e quindi di una conoscenza
di seconda mano, dogmatica, di quel mondo.
Quali sono gli elementi capitali della civiltà antica che il cittadino
qualunque sia il suo destino nella società dovrà, sperabilmente,
serbare nella sua memoria individuale? Io sono contrario all'idea che
il mondo antico detenga dentro di sé i valori inconcussi e
fondamentali ispirandosi ai quali abbiamo in mano la stella polare.
Questa è un'idea vecchia, molto radicata nella cultura, diciamo così,
professoria ancien régime, ma completamente sbagliata, nel senso che
siamo noi che crediamo che alcuni dei valori presenti nell'antichità
sono i valori per eccellenza. È una nostra proiezione all'indietro e
anche una scelta dentro un mondo che è molto più complicato, molto più
contraddittorio, eversivo o repressivo, spiritualista o materialista,
ascetico o il suo esatto contrario, a seconda dei pezzi di
documentazione che ci sono rimasti. Quindi, qual è l'elemento da
mantenere nella propria testa come preziosa acquisizione, dopo aver
studiato più o meno scolasticamente quella epoca storica? La
consapevolezza della differenza, la capacità di capire la differenza:
gli antichi sono diversi da noi, quindi la banalità della immobile
natura umana che si ripete attraverso il tempo e noi non abbiamo altro
compito che rimirare questa identità e ispirarci ad essa è il peggiore
dei modi di usare il mondo antico. E quindi il suo contrario, cioè
quello che mette l'accento sulla differenza, è il più istruttivo e
forse quello che ad un cittadino può servire anche come categoria
mentale. Questa è la mia risposta al primo, arduo quesito.
In una sua lezione su un personaggio molto importante della storia
romana, Ottaviano (Augusto), ha detto: «Nella comunità antica il
mestiere più importante è quello del cittadino, certo perché ci sono
gli schiavi che permettono l'attenzione allo studio». Due domande e
qualche considerazione: qual era la dimensione del cittadino in Grecia
e a Roma? Quanto era necessario essere esenti da impegni di ordine
pratico?
Oggi i ragazzi non sembrano oberati da mansioni di questo tipo (c'è,
piuttosto, un eccessivo assecondarli in attività paraludiche che
prendono tanto tempo!), e sembra che il 'tentativo' sia quello di
eliminare, o rimandare, ogni riferimento all'assunzione di
responsabilità. Poi, in un altro passaggio della stessa lezione, ha
detto una cosa che mi ha colpito molto, anche perché corrispondeva
esattamente a qualcosa che da tempo mi girava per la testa, ma che non
riuscivo bene a esprimere. La riferisco testualmente: «La dolcezza
pedagogica rallenta».
«Nella comunità antica il mestiere più importante è quello del
cittadino», con un corollario su che cosa rende un uomo cittadino
nella polis. Ecco, questo direi che è un po' il tema che unifica tutti
gli altri aspetti, dal momento che la cittadinanza, cioè
l'appartenenza a una élite ristretta che possiede la pienezza dei
diritti, è la posta in gioco principale nella comunità antica, e nel
conflitto che si determina all'interno di ogni comunità. La gestione
della cittadinanza è tutto, nel senso che chi ne è fuori è una 'non
persona'. Nell'Atene arcaica prima di Solone si può precipitare per
debiti nella condizione di 'non persona', cioè si perde la libertà
individuale e lo statuto di cittadino per una contingente e drammatica
circostanza, qual è appunto quella dell'indebitamento e
dell'incapacità di fronteggiarlo. Situazione di pericolo talmente
grave che appunto una delle iniziative fondamentali cui si lega la
memoria stessa di questo notevole legislatore, mediatore politico che
fu Solone consistette nel mettere una barriera invalicabile tra lo
statuto di libero e lo statuto di non libero, ovvero schiavo,
cancellando la possibilità di cadere in servitù per debito. A quel
punto, come è stato detto più volte e con molta lucidità, per esempio
da Moses Finley, la schiavitù diventò un mondo totalmente separato e
condannato, destinato a non riscattarsi se non con una faticosa
contrattazione individuale, a base economica fra l'altro, e la libertà
fu l'appannaggio della minoranza dei cittadini di pieno diritto.
Questa è la grande rivoluzione soloniana, che, mentre riscatta alcuni,
condanna definitivamente gli altri. Pensare fino in fondo questa
situazione, questo concetto, significa anche avere un'idea più storica
della rivoluzione soloniana alla quale si collega la nascita della
forma politica democratica, già nella tradizione antica e poi anche
nell'immagine storiografica moderna. La natura sostanziale della
cittadinanza consiste, nella città antica, nel ruolo militare: il
cittadino è allo stesso tempo il guerriero e il guerriero è ipso facto
cittadino, le due figure coincidono e magari si apre un problema
ulteriore; per esempio nell'Atene del V secolo, dalla fine della
tirannide alla piena instaurazione della democrazia alla metà circa
del secolo, si apre una delicata questione su quali ruoli militari
comportino la totale cittadinanza. L'innovazione che crea le premesse
per una democrazia cosiddetta radicale all'interno dei liberi,
l'innovazione consisté nell'includere nella cittadinanza anche coloro
che non si possono armare a proprie spese: i famosi «marinai che
muovono le navi», che diventano addirittura la base sociale della
democrazia, diventano una forte minoranza - non sono mai stati una
maggioranza numerica, come sapeva benissimo Aristotele - ma una forte
minoranza molto politicizzata, che partecipa ai lavori dell'assemblea,
dove non vanno tutti inevitabilmente, ma vanno i più politicizzati e
determina 'l'andamento' stesso della politica della città. Resta
comunque il principio che essi, in quanto parte determinante della più
importante arma di cui Atene disponga, cioè le navi, sono guerrieri e
per ciò cittadini (e si torna su questo punto); nel caso della
repubblica romana la cosa è addirittura linguisticamente dimostrata
dall'identità del concetto, populus, esercito e popolo, la parola vuol
dire tutte e due le cose. Senatus populusque vuol dire il Senato e
l'esercito oltre che il Senato e il popolo. Quindi, questo è il
cardine della cittadinanza, ma, come dicevo, il fatto che al di là di
quel baratro, che fu segnato inizialmente da Solone, c'è tutto il
resto degli esseri umani, ai quali è demandata parte cospicua della
produzione e del lavoro nelle sue varie forme (quello minerario,
quello agricolo, quello domestico) fa sì che il cittadino sia anche un
uomo che dispone di molto tempo libero. Questo non accade per esempio,
nella realtà dell'Attica, ai piccoli coltivatori, i quali sono legati
a un terreno che devono curare in maniera più o meno continua, e
quindi non frequentano l'assemblea popolare; se non in casi
particolarmente rilevanti, per esempio quando i loro interessi sono
direttamente colpiti. Il protagonista degli Acarnesi di Aristofane, il
famoso Diceopoli, è lì dall'alba in attesa che arrivino i politici
perché deve protestare, urlare se qualcuno di loro caldeggia la
continuazione della guerra, ma non è un abituale frequentatore
dell'assemblea perché ha molto da fare nel suo demo, nel suo terreno.
Questo ci fa capire abbastanza bene la dinamica contenuta in quella
frase da cui abbiamo preso le mosse, secondo cui il cittadino della
città antica, che certamente è tale in quanto è guerriero, è anche uno
che dispone di un tempo da dedicare alla vita pubblica, alla
frequentazione del teatro, forme di cultura collettiva assai vitali
nella città antica, perché esiste un mondo
del lavoro separato e subalterno. La proiezione estrema di questo
pensiero, che non è un pensiero estatico, entusiasta, è naturalmente
un pensiero critico; la proiezione estrema ed entusiastica è quella
famosissima di Friedrich Nietzsche, il quale dava del cosiddetto
miracolo greco una spiegazione assai brutale; che, cioè, proprio la
schiavitù, il fatto di avere scaricato su un mondo subalterno e non
riconosciuto nella sua pienezza umana, la fatica del lavoro avrebbe
determinato la grandezza spirituale dei Greci.
Questi Greci che appaiono quasi non esistenti, venati da una mitologia
pari a quella del pantheon greco antico.
Sono lontanissimo dalla idolatria per gli antichi e quando si cade in
estasi dinanzi alla tragedia greca sento un certo disagio e cerco di
ricordare che noi abbiamo per caso un gruppetto minuscolo di tragedie
a fronte di centinaia di altre che sono andate perdute; se le avessimo
tutte la nostra frenesia estatica si abbasserebbe di molto, il tono
sarebbe più pacato. Ecco, c'è questa idea buffa e assolutamente
antistorica che trasforma un mestiere in una sorta di produzione di
capolavori a getto continuo che è inconcepibile e dà appunto quel
senso di lontananza, di disagio, di rifiuto che è tra i fattori che
mettono in crisi la conoscenza del mondo antico. Il 'miracolo greco' è
un'invenzione moderna ovviamente, fermo restando che le realizzazioni
nel campo, per esempio, del pensiero scientifico (si dice i Greci
siano arrivati sull'orlo del calcolo infinitesimale; io non lo so,
perché non sono un matematico) meritano la più grande ammirazione
ovviamente; questo vale anche per l'applicazione pratica dei calcoli
che si vedono, per esempio, nell'architettura, che non è il prodotto
casuale di estri, ma è il frutto di calcoli di carattere appunto
matematico. Quindi, storicizzare tutto questo, come si diceva
nell'Ottocento «mettere i Greci a nudo», è l'unica via per conoscerli,
per stabilire un rapporto sano con questo passato e forse metterlo a
frutto.
Quanto alla domanda ulteriore, al fatto cioè che i nostri ragazzi non
sembrano proprio «oberati», ma sembra piuttosto che il tentativo sia
quello di eliminare ogni riferimento all'assunzione di responsabilità,
io questo pensiero lo condivido, perché credo che la traduzione banale
dell'idea del cittadino libero di esplicare la sua spiritualità sia
diventato il culto del tempo libero e del non lavoro; a questo punto
gli antichi, nel loro aspetto più faticoso per noi, quello
dell'approfondimento, della conoscenza di una lingua non più vivente,
di lingue non più viventi, tornano di grande utilità. Mi riferisco a
un pensiero non molto popolare, anzi dimenticato perché impopolare, di
Antonio Gramsci, il quale era un pedagogista piuttosto severo, quindi
non adatto all'attuale centrosinistra e neanche all'attuale
centrodestra, molto fuori della demagogia vigente. Gramsci in una
delle pagine dei Quaderni in cui si occupa della Riforma Gentile, del
senso della riforma della scuola pensata e realizzata dall'Idealismo
italiano (perché la Riforma Gentile poi è stata ideata insieme con
Croce, e viene definita fascista, ma in realtà era stata pensata
prima), riflettendo su tutto questo insieme, sul riordino del liceo
classico, sulla sua funzione e così via, riflettendo anche sulla
limitazione dello spazio riservato allo studio linguistico che in
quella riforma si verificava nello spirito di quella tedesca di pochi
anni prima di cui abbiamo letto all'inizio, fa un po' controcorrente
l'elogio dello studio linguistico, come la cosa faticosa alla quale
non ci si può non sottoporre, perché lo studio deve essere doloroso,
faticoso e solo allora produce una crescita. Lui dice che lo studio
del latino e del greco, del latino in particolare in quel caso, ha
questo importante vantaggio: è come vivisezionare un cadavere, che non
ha nulla a che fare con lo studio di una lingua moderna, è un lavoro
duro, complicato, che esige ore di applicazione e in quanto tale è
vantaggioso Questa formulazione è stata dimenticata, direi anche dai
gramsciani più devoti. Non perché tutto quello che ha scritto Gramsci
sia di per sé la verità, ma è interessante il fatto che si sia formata
nella sua mente questa idea perché probabilmente ha visto un elemento
che di solito si lascia in ombra. Lui dice in modo implicito quello
che si potrebbe dire, a mio giudizio, in modo ancora più fecondo:
proprio perché lingue non praticate, non viventi, inquadrate in una
realtà che noi faticosamente conquistiamo, una realtà che dobbiamo
recuperare per pezzetti e che in gran parte ci sfugge, tanto più sono
per noi difficili. La difficoltà in cosa consiste? Nella necessità
intuitiva. Tradurre da una lingua come il greco, come il latino, esige
un salto intuitivo dalla successione delle parole al senso complessivo
di ogni periodo ed è quello l'esercizio più importante, per lo meno
pari a quello che si determina nello studio della matematica,
assolutamente unico e insostituibile e sicuramente complicato anche
per i docenti, i quali non è detto che siano allenati necessariamente
a questa ginnastica straordinaria che si ripropone per l'interprete
dinanzi a ogni pagina: ogni pagina nuova, in quelle lingue, richiede
da chi le affronta questa elasticità; crearsi nella mente il senso
generale che dà un senso a tutti i pezzi, che presi ciascuno per sé
non significano nulla. Posso fare la traduzione simultanea di una
lingua vivente se faccio l'interprete alle Nazioni Unite, ma non potrò
mai fare la traduzione simultanea di un testo greco o latino, mettendo
in fila tutte le parole che mi trovo davanti. È quel salto,
quell'intuizione necessaria grazie alla quale ci si addestra: perché
quanto più si ripete questo esperimento aiutandosi con traduzioni, con
l'aiuto di docenti che ci guidano e così via, tanto più questo viene
agevolmente compiuto. Ecco, questo è un procedimento mentale secondo
me entusiasmante, di grandissima utilità, rispetto al quale il
problema del «a che mi serve?» perde qualunque significato, perché se
io l'ho fatto per alcuni anni della mia carriera scolastica e poi farò
il medico, o l'ingegnere o farò l'artista di teatro, quell'esercizio
mi sarà stato preziosissimo, quale che sia il mio abituale impiego di
quella elasticità mentale che avrò conquistato. Ecco perché credo che
la questione si ponga in termini non di banale, di empirica,
utilitaria riscossione di vantaggi, ma in termini di addestramento
mentale, che è forse la cosa più importante cui la scuola può sperare
di giungere. Ecco perché ho detto che la dolcezza pedagogica rallenta,
perché la dolcezza pedagogica ritarda lo sviluppo delle persone, in
quanto lo sviluppo è uno sviluppo attraverso un tirocinio, una
disciplina, un'autolimitazione, una capacità di proporsi degli
obiettivi e raggiungerli, l'esatto contrario della dolcezza; la
dolcezza è in fondo l'utopia, la pura utopia. L'utopia è quella di
Giambulo, in Diodoro Siculo, in cui si immaginano persone ferme sotto
alberi da cui i frutti cadono spontaneamente e vengono colti senza
fatica. È un sogno dell'umanità, l'età dell'oro, ma l'età dell'oro è
soltanto un'idea utopistico-letteraria, non è un programma politico e
neanche un obiettivo. Quindi la dolcezza è veramente il contrario di
ciò che forma e fa maturare le persone. Il caso specifico che ho
illustrato prima - perché il campo che ci riguarda è quello dello
studio del mondo antico, toccando la questione più delicata, la
difficoltà linguistica - è l'esempio a mio avviso più eloquente di
come una pedagogia non demagogica dia frutti e come invece l'altra sia
sostanzialmente tautologica rispetto all'esistente. Problemi di questo
genere, impostati così, possono sembrare ostentazione di severità o di
rigore. Non c'è nulla di ostentativo in questo, c'è la riflessione che
è anche ormai un bilancio, perché noi abbiamo alle spalle decenni di
storia della scuola e di pratica scolastica e ci siamo, credo, tutti
resi conto dell'impoverimento contenutistico, dell'aver realizzato un
prodotto alla fine meno valido, più povero, che sa meno cose, che sa
meno bene muoversi nel mondo, che non ha parametri mentali, fra i
quali c'è l'autolimitazione, la capacità di autolimitarsi e, quindi,
di avere un rapporto corretto con gli altri. Decenni di esperienza ci
fanno vedere che il risultato è stato scadentissimo. Allora, tornare
indietro è sempre una ginnastica mal vista, ma certamente battere
strade completamente diverse da quelle che si sono rivelate perdenti è
saggia politica.
Torniamo all'intento teorico di questa conversazione. Con quali
argomenti si può tentare di 'convincere' uno studente, che affronta la
scelta dello studio universitario da intraprendere, a optare per una
disciplina del settore umanistico? E poniamo che questa scelta cada su
una facoltà di Lettere (magari proprio su Lettere classiche, come si
diceva un tempo); alla reazione quasi certamente inorridita di chi
apprende la (nefasta!) notizia, cosa si può opporre, come si può
argomentare concretamente?
Le riflessioni fatte fin qui, credo, tolgono di mezzo anche il falso
problema della utilità, che è un argomento che spesso torna nella
riflessione. Torna soprattutto nelle famiglie, perché le famiglie
incombono sui loro rampolli e instillano nella loro testa, magari per
ragioni anche comprensibili, il criterio utilitaristico: scelgo una
scuola che mi dia un riscontro immediato ed evidente e scredito quella
che, invece, questo risultato non me lo dà. Qui però si vorrebbe fare
un piccolo chiarimento, che non credo sia del tutto ovvio. È noto che
nella storia delle strutture educative dei Paesi europei che hanno una
certa somiglianza nelle strutture stesse (Francia, Germania, Italia
per tanto tempo, dalla metà dell'Ottocento in avanti, più o meno hanno
avuto un sistema scolastico simile), in questi nostri Paesi è
facilmente documentato il fenomeno per cui le scuole di carattere
immediatamente tecnico erano le scuole delle classi popolari; percorso
più breve, sbocco immediato in un lavoro di carattere, avrebbe detto
Croce, banausico, cioè essenzialmente connesso alla fatica fisica, ad
un impiego di carattere prettamente subalterno-dipendente, lavoro
nobilissimo, ma naturalmente alla fine obbligato sbocco per alcune
classi e non per altre, mentre i licei, in particolare quello
classico, erano invece il percorso e poi lo sbocco di classi medio-
alte, che si potevano permettere lo studio cosiddetto inutile, nel
senso alto e filosofico della parola, al seguito del quale c'era
l'università, al seguito della quale c'erano le professioni. Quindi,
l'ordinamento sociale aveva nella scuola in certo senso la sua cellula
di partenza e anche i suoi percorsi già preordinati. Non deve essere
però dimenticato che proprio le classi povere, costrette più o meno
dalla dinamica sociale a scegliere in un certo modo, se consapevoli
anche in minima parte, guardavano con desiderio e nostalgia alla
scuola cosiddetta inutile. Il paradosso dinanzi al quale noi ci
troviamo è che nelle classi medio-alte si è fatta strada l'idea che
l'inutile scuola di carattere storico-filosofico-contemplativo va
sostituita con una scuola di immediata utilità. È un paradosso. Coloro
che socialmente avrebbero anche la possibilità di concedersi questo
piacere neutrale e pratico si sono così imbarbariti da sognare una
forma scolastica minore, più povera e quindi, in ultima analisi,
perdente. È un sovvertimento. Si diceva un tempo, anche Concetto
Marchesi l'ha detto quando difendeva il latino: il proletario desidera
che suo figlio lo sappia il latino. E noi siamo nel paradosso che
invece il benestante dice «Ma a che mi serve questa cosa inutile?»,
avendo dell'utile e dell'inutile un'idea estremamente banale e povera.
Questo chiarimento serve a sbaraccare i pregiudizi più forti con cui
abbiamo a che fare quotidianamente. Poi c'è un altro aspetto che credo
rimanga in ombra; che cioè il concetto di utile e inutile stranamente
si concentra soltanto su alcuni rami del sapere. Per esempio, non c'è
nulla di più inutile della musica, non c'è nulla di più inutile della
logica, ma nessuno si permetterebbe di dire «Rimuoviamo la musica,
rimuoviamo la logica». Allora, perché mai soltanto alcune cose cadono
sotto la categoria, sotto la mannaia dell'inutile? Evidentemente per
una non conoscenza o per una pessima conoscenza. Ai giovanissimi che
si pongono queste domande - perché comunque è più interessante
convincere loro, che le persone già corrotte dall'esperienza - va
spiegato esattamente questo, che essi forse addirittura naturaliter
vanno cercando delle cose inutili nelle quali credono e allora il
campo dell'inutile nobile, che, in ultima analisi, è molto utile, va
dilatato, rimirato in tutta la sua ampiezza.
Rispetto alle materie umanistiche, alla sua materia per esempio,
nell'attuale organizzazione universitaria qual è il senso della laurea
in tre anni (ed eventuali altri due)? In che cosa differisce dalla
precedente in quattro anni?
Il veleno di questi pseudoconcetti è penetrato negli ordinamenti
universitari: mi riferisco, appunto, alla riforma infausta denominata
tre + due, che sembra una formula pitagorica, ma ormai per intenderci
la chiamiamo così. Anche qui il discorso da farsi è forse un po' più
lungo e accidentato. Poiché io mi considero una persona che ha sempre
scelto politicamente sul versante della sinistra, e, ad esempio, penso
che annullare l'esperienza storica del comunismo sia una follia
eccetera, mi concedo il diritto di dire che la sinistra italiana, ma
non solo italiana, ha colpe spaventose nella demolizione
dell'istituzione scolastica e universitaria, e che ciò è accaduto per
un male inteso concetto di democrazia. E purtroppo è l'esperienza
ormai semisecolare che abbiamo alle spalle che dimostra ciò.
L'operazione è stata duplice, ancora una volta sono state le élites
privilegiate a dare il colpo di grazia, perché le élites privilegiate
erano quelle che nelle università dei tardi anni Sessanta avevano
fruito al meglio di quello che quel sistema poteva dare e hanno
cominciato a sdottrinare che lo si dovesse demolire in omaggio a una
male intesa idea d'uguaglianza, che non era uguaglianza, era un regalo
avvelenato. Non era uguaglianza, perché l'uguaglianza dell'ignoranza è
una pugnalata alle spalle, non è un dono e neanche un diritto. Questo
appare un po' polemico detto in questa maniera, ma secondo me rende
bene il concetto.
Su due piani si è svolta la cosa: parte dall'università, investe
naturalmente la scuola (scuola media, licei eccetera) e innesca un
circuito per cui dopo un po' di generazioni l'università si riempie di
soggetti completamente diversi da quelli che avevano messo in moto
questa pseudorivoluzione culturale, di modo che questo circuito
perverso si autoalimenta in maniera esponenziale. A questo punto sorge
nel legislatore insensato (mi riferisco a Luigi Berlinguer) il
desiderio di trasformare questa realtà, via via deteriore, in
normativa e con un procedimento abbastanza scorretto (mi riferisco
agli anni 1997, 1998, gli anni in cui rapidamente furono stabilite
queste nuove normative), cioè sul falso presupposto che già in Europa
le cose stessero in quei termini, il che non era affatto vero; fu
creata di colpo (cosa mai successa prima, i processi sono sempre stati
lenti, graduali, inevitabilmente, le persone non si evolvono a colpi
di cannone) una dicotomia, una divisione in due del percorso
universitario. Perdente in tutti e due i casi, perché quello triennale
è meno che un post liceo, programmaticamente tale, con programmi in
cui si misura persino il numero di pagine la cui conoscenza si può
richiedere agli allievi; e quello biennale è troppo corto per essere
veramente specialistico. Quindi, è una dissipazione complessiva di
cinque anni, rispetto ad un ordinato e razionale percorso: parlo, per
esempio, di facoltà di carattere umanistico di quattro anni in cui la
gradualità era scaglionata su un arco di tempo sufficiente per
giungere alla fine ad una frequentazione dello specialismo che è il
momento più alto nella carriera di una persona che ha la buona
occasione di frequentare l'università: il momento più alto da laureato
in attesa di posto nella scuola, quei mesi passati a concludere la
propria carriera universitaria rimanevano come un ricordo importante e
metodicamente utile quale che fosse poi la scelta più o meno
obbligata, scuola media inferiore, ginnasio, quello che sia. Aver
fatto una vera tesi di laurea dopo un percorso che si è fatto via via
sempre più acuminato e coerente era un'esperienza unica, un grande
privilegio. Ora questo è scomparso, nel senso che sia la prima che la
seconda fase sono degli arrangiamenti frettolosi: la prima quasi un
parcheggio e la seconda una corsa disperata nell'illusione di colmare
un ritardo che diventa a quel punto incolmabile.
Ma direi che il disastro (che si è misurato facilmente, adesso è quasi
ovvio sentire parlare criticamente e solo criticamente di questa
esperienza) non dico che sia in via di risanamento, sarei troppo
ottimista, ma certamente è nell'occhio critico di quasi tutte le
istituzioni universitarie. Le più forti, la medicina e la
giurisprudenza, ne sono rimaste fuori e questo forse è sintomatico.
Medicina per ovvie ragioni, nel senso che uno che fa la laurea
triennale non ha neanche le caratteristiche del paramedico o
infermiere: è un nulla e basta. Nel caso della giurisprudenza c'è
stato, come sempre da quelle parti, un veicolo fortissimo di difesa e
cioè gli ordini professionali e gli sbocchi: avvocato, procuratore,
giudice comportano concorsi per i quali il percorso triennale non
serve a nulla, non è neanche riconosciuto. E quindi fatalmente tutte
le facoltà di giurisprudenza hanno ripristinato, prima de facto poi de
iure, l'ordinamento precedente. Sarà un caso? Certamente no, vuol dire
che dove il problema aveva un risvolto pratico allarmante, lo si è
fermato in tempo.
Nel caso nostro, nelle facoltà di Lettere, credo che il risultato sarà
che il cursus universitario diverrà di cinque anni. Così l'illusione
puerile secondo cui il mercato del lavoro aspettava ansioso i
triennalisti perché altrimenti ci sarebbe stato un gaspillage delle
forze, delle risorse umane del Paese si è trasformato in un
allungamento del percorso, e quindi in un ritardo. E questo direi che
è stata una nemesi storica sulla demagogia di sinistra, di cui la
sinistra è stata la vittima; si paga tutto nella politica, la politica
è verità, quindi si paga tutto, gli sbagli in primis.
Se si volesse scegliere la ricerca, quali settori si aprono per uno
sbocco lavorativo, e con quali tempi, nell'ambito degli studi
classici?
La domanda ha una zona d'ombra che la insidia, perché diversamente da
altri Paesi d'Europa (come Francia, Inghilterra, Germania che conosco
meglio, ma penso che la Spagna sia uguale) noi abbiamo ancora una
vastissima rete scolastica di licei, dove il greco e il latino sono
materie obbligatorie (usiamo questa parola malvista). Cosa che non è
più negli altri Paesi europei. Il che, da un certo punto di vista,
potrebbe favorirci in linea teorica, perché la domanda d'insegnanti di
quelle discipline dovrebbe essere continuamente alimentata dal fatto
che c'è questa rete così ampia e che gli ordinamenti sono rimasti
sostanzialmente gli stessi, nonostante i licei sperimentali.
Nonostante questo, la maggioranza delle istituzioni scolastiche
esistenti comporterebbe un notevole bisogno di nuovi insegnanti capaci
di insegnare queste discipline; quindi quello sbocco lavorativo
parrebbe per noi assicurato.
In realtà noi siamo il "caso italiano", noi riusciamo a realizzare
quello che in Francia parrebbe impossibile (ci rimproverano di non
essere sufficientemente cartesiani ed è vero, non lo siamo per nulla);
abbiamo realizzato un insegnamento apparente del greco e del latino
nelle scuole. Questo è stato il nostro capolavoro. Con grande disagio,
perché poi questo diventa una scuola di corruzione: lo studente, lo
scolaro è sempre in grado di capire tutto, non è vero che non capisca.
A rigore si potrebbe dire che quando si svolgono le interrogazioni
l'unico che dà il voto giusto è lo studente stesso, solo che non lo
dice, ma è così. È scuola di corruzione perché se lo spettacolo
offerto è di fingere di praticare un insegnamento che di fatto non
c'è, fingere di sottoporre alla prova di traduzione, per esempio alla
maturità classica, e di fatto fornirla sotto banco, il che è risaputo.
La prova viene elusa, nel momento stesso in cui viene fatta, questa
che, ripeto, è una scuola di corruzione toglie gran parte del valore
che potrebbe avere la sopravvivenza da noi di quello che altrove
manca. Ed è un peccato, anche per una ragione empirica; mi è accaduto
di scriverlo su qualche giornale nei mesi scorsi. Ci sono, per
esempio, nel mondo occidentale, istituzioni, biblioteche, archivi dove
conoscitori non troppo elementari delle lingue antiche troverebbero un
posto di lavoro necessario. Leggere e capire il frontespizio di
un'opera pubblicata nel Cinquecento, nel Seicento o nel Settecento,
tutto scritto in latino con molte parole in greco, tra breve sarà come
la lettura dell'arabo per funzionari che nella loro esperienza
scolastica non hanno praticamente più quelle conoscenze. Che cosa
succede? Succede il paradosso: Oxford, per esempio, Londra, ma
soprattutto la Bodleiana hanno una grande quantità di papiri greci,
letterari e non. Ma le scuole, le università del Regno Unito non
producono più un numero sufficiente di persone in grado di leggere
queste lingue con una certa profondità, e quindi chiedono fuori, e
tanti italiani che non trovano lavoro in Italia si fanno avanti per
consulenze pro tempore nell'ambito di queste istituzioni. Perciò mi è
capitato di scrivere che noi esportiamo papirologi, che sembra
un'enormità (non sono numeri altissimi), però è vero. Allora è un
peccato se, avendo noi questa base più larga dovuta appunto
all'ordinamento tuttora vigente, la svuotassimo facendone una scatola
vuota, in cui l'insegnamento impartito è apparente. Sarebbe
autoingannarci e disperdere una ricchezza fruibile su un mercato
imprevisto, cioè quello della esportazione di competenti in Paesi che
per le scelte che hanno fatto, quei competenti non li hanno più. La
Francia aveva una grandissima tradizione di licei meravigliosi; le
riforme, da Faure in avanti, hanno ristretto talmente il novero degli
scolari capaci di conoscere queste lingue, queste discipline, da
metterli in una seria difficoltà. Fuori dall'École nationale des
chartes, per esempio, dove ancora lo studio è tradizionalissimo, il
latino e il greco sono diventati un oggetto sconosciuto. La Francia
del Collège de France, di Francesco I, di Pietro Ramo: sembra un po'
una follia, ma la storia è andata in quella direzione. Siccome da noi
non è andata in quella direzione è un vero peccato che noi
ridicolizziamo, svuotandola, una ricchezza che comunque abbiamo. Mi
sono soffermato così a lungo su questo punto perché contrasto con
l'idea che non c'è sbocco per coloro che seguono nella scuola e
nell'università, come scolari di facoltà letterarie, questo tipo di
studi. Non c'è posto se questi studi vengono fatti così male che la
fruizione come mestiere di quelle competenze si vanifica. Non sono
così illuso da dire che poi ci sono le soprintendenze eccetera, perché
quello è un inganno demagogico; anzi, se c'è un ambito dove la
saturazione è totale, è proprio quello. Ultimo colpo di piccone su
tutta questa macchina è stato dato sempre dai nostri governanti
demagogici di sinistra, con l'invenzione delle famose SSIS e con la
demonizzazione del concorso. Il concorso, non per fare il laudator
temporis acti, se non è truccato (e allora c'è la magistratura forse
da invocare) è la forma più democratica di valutazione, dove tutti
siamo uguali dinanzi ad una prova. Ma invece, l'invenzione di questa
'baracca' in cui l'essere seduto in una sala per un certo numero di
ore ad ascoltare quasi sempre gli stessi docenti che si sono ascoltati
nei corsi universitari e al termine trovarsi detentori di un titolo,
questo sì che è un inganno. Quindi, caldeggio con forza, anche se
questo può sembrare assolutamente utopistico, un ritorno ad un sistema
di prove che per essere riferite al vero merito delle singole persone
sono autenticamente democratiche, oltre che utili nel determinare le
scelte.
E può essere che, lanciando attraverso l'Enciclopedia Italiana questo
messaggio ai nostri governanti, noi otteniamo quel successo che altre
volte non ci ha arriso.
Cervia, 14 aprile 2007
Pubblicato il 10/5/2007
un'intervista a Luciano Canfora sullo studio e sull'insegnamento
dell'antichità classica. Non lo ritengo del tutto condivisibile, in
particolare sulle SSIS (va detto comunque che non posso non difendere
tale istituzione, visto che dall'anno prossimo sarò supervisore del
tirocinio alla SSIS Lazio). Condivido invece in modo assoluto la tesi
per cui "abbiamo realizzato un insegnamento apparente del greco e del
latino nelle scuole" e che questo fenomeno sia una sorta di educazione
alla corruzione: vorrei che su questa lista si aprisse un dibattito
intorno a questa tesi.
Teo Orlando
http://www.treccani.it/site/Scuola/Osservatorio/scuola_osservatorio.htm
Lo studio dell'antichità classica. Conversazione con Luciano Canfora
a cura di Daniela Cavallo
Uno sguardo sull'antichità classica per la consapevolezza della
differenza tra il mondo antico e il nostro mondo; il valore dello
studio delle lingue non più viventi, tradurre il greco e il latino
come metafora di una palestra per la mente, che prevede un allenamento
per conquistare quella elasticità necessaria ad affrontare la prova
finale del salto intuitivo.
Qualche riflessione di Luciano Canfora, professore di Filologia
classica presso il Dipartimento di scienze dell'antichità
dell'Università di Bari.
Come proporre lo studio dell'antichità classica nella scuola? Quali
possono essere gli elementi di questa disciplina che la scuola
dovrebbe assicurare a tutti?
Lo studio dell'antichità classica negli ordini di scuola in cui essa è
stata presente ed è ancora presente, il cosiddetto liceo classico,
quello scientifico, e il magistrale che poi si chiamerà pedagogico, ha
sempre avuto un posto cospicuo, rilevante, tanto da incutere in alcuni
riformatori la volontà di emarginarlo, ridurlo, in omaggio a un
principio anche giusto di non creare una deformazione mentale negli
allievi; esigenza, questa, che non è recente.
I nostri ministri, riformatori, hanno forse poca cultura, poca
informazione in questo campo. Penso a Guglielmo II, invece, che
parecchio tempo addietro, nell'anno 1900, promuove, presiede una
Schulkonferenz, una conferenza sullo stato di salute della scuola
dell'Impero tedesco, e con forza chiede la riduzione delle ore
settimanali di greco nel ginnasio umanistico, equivalente del liceo
classico, in favore della lingua inglese, delle discipline
scientifiche, dicendo ai professori esterrefatti, tutti classicisti,
presenti «Io non voglio formare degli antichi greci e romani ma dei
tedeschi», che è una formulazione aspra e sintetica, ma molto
efficace; è interessante notare che grandissimi studiosi
dell'antichità vicini al potere, molto vicini al vertice politico-
culturale dell'Impero, come il grande Wilamowitz, approvarono in pieno
questa scelta in opposizione ai professori di ginnasio che invece vi
vedevano già una profanazione. Questo per dire che il problema
querelle degli antichi e dei moderni dentro l'istituzione scolastica è
sempre stato vivo, vitale, per fortuna, in quanto da quel conflitto
nasce la trasformazione.
Dove comincia la barbarie? Comincia quando si decide il più e il meno
importante, quando si comincia a fare una scala. Tutta la storia
passata è fondamentale e vive dentro di noi, per cui è un'amputazione
il decidere che un pezzo si toglie, si riduce e così via. Naturalmente
la barriera che via via si determina e nel corso del tempo diventa
sempre più problematica è quella della lingua, delle lingue antiche,
come veicolo per la comprensione. Consideriamo la frase che il grande
Wilamowitz disse quando scrisse lui stesso un libro scolastico di
greco, il Griechisches Lesebuch, il libro di lettura di greco, «Se lo
scolaro non legge correntemente il greco, questo libro è meglio non
adottarlo nemmeno»; naturalmente, lo scolaro che legge correntemente
il greco è un'utopia, oggi, ma lo era già cento anni fa. Non dobbiamo
illuderci.
Basta questo evidente limite a indurci a fare a meno della conoscenza
del mondo antico? Certamente no, anche se l'illusione molto diffusa
secondo cui lo studio linguistico sarebbe un lusso è completamente
erronea, perché dobbiamo ammettere contemporaneamente che si
tratterebbe di un inevitabile impoverimento e quindi di una conoscenza
di seconda mano, dogmatica, di quel mondo.
Quali sono gli elementi capitali della civiltà antica che il cittadino
qualunque sia il suo destino nella società dovrà, sperabilmente,
serbare nella sua memoria individuale? Io sono contrario all'idea che
il mondo antico detenga dentro di sé i valori inconcussi e
fondamentali ispirandosi ai quali abbiamo in mano la stella polare.
Questa è un'idea vecchia, molto radicata nella cultura, diciamo così,
professoria ancien régime, ma completamente sbagliata, nel senso che
siamo noi che crediamo che alcuni dei valori presenti nell'antichità
sono i valori per eccellenza. È una nostra proiezione all'indietro e
anche una scelta dentro un mondo che è molto più complicato, molto più
contraddittorio, eversivo o repressivo, spiritualista o materialista,
ascetico o il suo esatto contrario, a seconda dei pezzi di
documentazione che ci sono rimasti. Quindi, qual è l'elemento da
mantenere nella propria testa come preziosa acquisizione, dopo aver
studiato più o meno scolasticamente quella epoca storica? La
consapevolezza della differenza, la capacità di capire la differenza:
gli antichi sono diversi da noi, quindi la banalità della immobile
natura umana che si ripete attraverso il tempo e noi non abbiamo altro
compito che rimirare questa identità e ispirarci ad essa è il peggiore
dei modi di usare il mondo antico. E quindi il suo contrario, cioè
quello che mette l'accento sulla differenza, è il più istruttivo e
forse quello che ad un cittadino può servire anche come categoria
mentale. Questa è la mia risposta al primo, arduo quesito.
In una sua lezione su un personaggio molto importante della storia
romana, Ottaviano (Augusto), ha detto: «Nella comunità antica il
mestiere più importante è quello del cittadino, certo perché ci sono
gli schiavi che permettono l'attenzione allo studio». Due domande e
qualche considerazione: qual era la dimensione del cittadino in Grecia
e a Roma? Quanto era necessario essere esenti da impegni di ordine
pratico?
Oggi i ragazzi non sembrano oberati da mansioni di questo tipo (c'è,
piuttosto, un eccessivo assecondarli in attività paraludiche che
prendono tanto tempo!), e sembra che il 'tentativo' sia quello di
eliminare, o rimandare, ogni riferimento all'assunzione di
responsabilità. Poi, in un altro passaggio della stessa lezione, ha
detto una cosa che mi ha colpito molto, anche perché corrispondeva
esattamente a qualcosa che da tempo mi girava per la testa, ma che non
riuscivo bene a esprimere. La riferisco testualmente: «La dolcezza
pedagogica rallenta».
«Nella comunità antica il mestiere più importante è quello del
cittadino», con un corollario su che cosa rende un uomo cittadino
nella polis. Ecco, questo direi che è un po' il tema che unifica tutti
gli altri aspetti, dal momento che la cittadinanza, cioè
l'appartenenza a una élite ristretta che possiede la pienezza dei
diritti, è la posta in gioco principale nella comunità antica, e nel
conflitto che si determina all'interno di ogni comunità. La gestione
della cittadinanza è tutto, nel senso che chi ne è fuori è una 'non
persona'. Nell'Atene arcaica prima di Solone si può precipitare per
debiti nella condizione di 'non persona', cioè si perde la libertà
individuale e lo statuto di cittadino per una contingente e drammatica
circostanza, qual è appunto quella dell'indebitamento e
dell'incapacità di fronteggiarlo. Situazione di pericolo talmente
grave che appunto una delle iniziative fondamentali cui si lega la
memoria stessa di questo notevole legislatore, mediatore politico che
fu Solone consistette nel mettere una barriera invalicabile tra lo
statuto di libero e lo statuto di non libero, ovvero schiavo,
cancellando la possibilità di cadere in servitù per debito. A quel
punto, come è stato detto più volte e con molta lucidità, per esempio
da Moses Finley, la schiavitù diventò un mondo totalmente separato e
condannato, destinato a non riscattarsi se non con una faticosa
contrattazione individuale, a base economica fra l'altro, e la libertà
fu l'appannaggio della minoranza dei cittadini di pieno diritto.
Questa è la grande rivoluzione soloniana, che, mentre riscatta alcuni,
condanna definitivamente gli altri. Pensare fino in fondo questa
situazione, questo concetto, significa anche avere un'idea più storica
della rivoluzione soloniana alla quale si collega la nascita della
forma politica democratica, già nella tradizione antica e poi anche
nell'immagine storiografica moderna. La natura sostanziale della
cittadinanza consiste, nella città antica, nel ruolo militare: il
cittadino è allo stesso tempo il guerriero e il guerriero è ipso facto
cittadino, le due figure coincidono e magari si apre un problema
ulteriore; per esempio nell'Atene del V secolo, dalla fine della
tirannide alla piena instaurazione della democrazia alla metà circa
del secolo, si apre una delicata questione su quali ruoli militari
comportino la totale cittadinanza. L'innovazione che crea le premesse
per una democrazia cosiddetta radicale all'interno dei liberi,
l'innovazione consisté nell'includere nella cittadinanza anche coloro
che non si possono armare a proprie spese: i famosi «marinai che
muovono le navi», che diventano addirittura la base sociale della
democrazia, diventano una forte minoranza - non sono mai stati una
maggioranza numerica, come sapeva benissimo Aristotele - ma una forte
minoranza molto politicizzata, che partecipa ai lavori dell'assemblea,
dove non vanno tutti inevitabilmente, ma vanno i più politicizzati e
determina 'l'andamento' stesso della politica della città. Resta
comunque il principio che essi, in quanto parte determinante della più
importante arma di cui Atene disponga, cioè le navi, sono guerrieri e
per ciò cittadini (e si torna su questo punto); nel caso della
repubblica romana la cosa è addirittura linguisticamente dimostrata
dall'identità del concetto, populus, esercito e popolo, la parola vuol
dire tutte e due le cose. Senatus populusque vuol dire il Senato e
l'esercito oltre che il Senato e il popolo. Quindi, questo è il
cardine della cittadinanza, ma, come dicevo, il fatto che al di là di
quel baratro, che fu segnato inizialmente da Solone, c'è tutto il
resto degli esseri umani, ai quali è demandata parte cospicua della
produzione e del lavoro nelle sue varie forme (quello minerario,
quello agricolo, quello domestico) fa sì che il cittadino sia anche un
uomo che dispone di molto tempo libero. Questo non accade per esempio,
nella realtà dell'Attica, ai piccoli coltivatori, i quali sono legati
a un terreno che devono curare in maniera più o meno continua, e
quindi non frequentano l'assemblea popolare; se non in casi
particolarmente rilevanti, per esempio quando i loro interessi sono
direttamente colpiti. Il protagonista degli Acarnesi di Aristofane, il
famoso Diceopoli, è lì dall'alba in attesa che arrivino i politici
perché deve protestare, urlare se qualcuno di loro caldeggia la
continuazione della guerra, ma non è un abituale frequentatore
dell'assemblea perché ha molto da fare nel suo demo, nel suo terreno.
Questo ci fa capire abbastanza bene la dinamica contenuta in quella
frase da cui abbiamo preso le mosse, secondo cui il cittadino della
città antica, che certamente è tale in quanto è guerriero, è anche uno
che dispone di un tempo da dedicare alla vita pubblica, alla
frequentazione del teatro, forme di cultura collettiva assai vitali
nella città antica, perché esiste un mondo
del lavoro separato e subalterno. La proiezione estrema di questo
pensiero, che non è un pensiero estatico, entusiasta, è naturalmente
un pensiero critico; la proiezione estrema ed entusiastica è quella
famosissima di Friedrich Nietzsche, il quale dava del cosiddetto
miracolo greco una spiegazione assai brutale; che, cioè, proprio la
schiavitù, il fatto di avere scaricato su un mondo subalterno e non
riconosciuto nella sua pienezza umana, la fatica del lavoro avrebbe
determinato la grandezza spirituale dei Greci.
Questi Greci che appaiono quasi non esistenti, venati da una mitologia
pari a quella del pantheon greco antico.
Sono lontanissimo dalla idolatria per gli antichi e quando si cade in
estasi dinanzi alla tragedia greca sento un certo disagio e cerco di
ricordare che noi abbiamo per caso un gruppetto minuscolo di tragedie
a fronte di centinaia di altre che sono andate perdute; se le avessimo
tutte la nostra frenesia estatica si abbasserebbe di molto, il tono
sarebbe più pacato. Ecco, c'è questa idea buffa e assolutamente
antistorica che trasforma un mestiere in una sorta di produzione di
capolavori a getto continuo che è inconcepibile e dà appunto quel
senso di lontananza, di disagio, di rifiuto che è tra i fattori che
mettono in crisi la conoscenza del mondo antico. Il 'miracolo greco' è
un'invenzione moderna ovviamente, fermo restando che le realizzazioni
nel campo, per esempio, del pensiero scientifico (si dice i Greci
siano arrivati sull'orlo del calcolo infinitesimale; io non lo so,
perché non sono un matematico) meritano la più grande ammirazione
ovviamente; questo vale anche per l'applicazione pratica dei calcoli
che si vedono, per esempio, nell'architettura, che non è il prodotto
casuale di estri, ma è il frutto di calcoli di carattere appunto
matematico. Quindi, storicizzare tutto questo, come si diceva
nell'Ottocento «mettere i Greci a nudo», è l'unica via per conoscerli,
per stabilire un rapporto sano con questo passato e forse metterlo a
frutto.
Quanto alla domanda ulteriore, al fatto cioè che i nostri ragazzi non
sembrano proprio «oberati», ma sembra piuttosto che il tentativo sia
quello di eliminare ogni riferimento all'assunzione di responsabilità,
io questo pensiero lo condivido, perché credo che la traduzione banale
dell'idea del cittadino libero di esplicare la sua spiritualità sia
diventato il culto del tempo libero e del non lavoro; a questo punto
gli antichi, nel loro aspetto più faticoso per noi, quello
dell'approfondimento, della conoscenza di una lingua non più vivente,
di lingue non più viventi, tornano di grande utilità. Mi riferisco a
un pensiero non molto popolare, anzi dimenticato perché impopolare, di
Antonio Gramsci, il quale era un pedagogista piuttosto severo, quindi
non adatto all'attuale centrosinistra e neanche all'attuale
centrodestra, molto fuori della demagogia vigente. Gramsci in una
delle pagine dei Quaderni in cui si occupa della Riforma Gentile, del
senso della riforma della scuola pensata e realizzata dall'Idealismo
italiano (perché la Riforma Gentile poi è stata ideata insieme con
Croce, e viene definita fascista, ma in realtà era stata pensata
prima), riflettendo su tutto questo insieme, sul riordino del liceo
classico, sulla sua funzione e così via, riflettendo anche sulla
limitazione dello spazio riservato allo studio linguistico che in
quella riforma si verificava nello spirito di quella tedesca di pochi
anni prima di cui abbiamo letto all'inizio, fa un po' controcorrente
l'elogio dello studio linguistico, come la cosa faticosa alla quale
non ci si può non sottoporre, perché lo studio deve essere doloroso,
faticoso e solo allora produce una crescita. Lui dice che lo studio
del latino e del greco, del latino in particolare in quel caso, ha
questo importante vantaggio: è come vivisezionare un cadavere, che non
ha nulla a che fare con lo studio di una lingua moderna, è un lavoro
duro, complicato, che esige ore di applicazione e in quanto tale è
vantaggioso Questa formulazione è stata dimenticata, direi anche dai
gramsciani più devoti. Non perché tutto quello che ha scritto Gramsci
sia di per sé la verità, ma è interessante il fatto che si sia formata
nella sua mente questa idea perché probabilmente ha visto un elemento
che di solito si lascia in ombra. Lui dice in modo implicito quello
che si potrebbe dire, a mio giudizio, in modo ancora più fecondo:
proprio perché lingue non praticate, non viventi, inquadrate in una
realtà che noi faticosamente conquistiamo, una realtà che dobbiamo
recuperare per pezzetti e che in gran parte ci sfugge, tanto più sono
per noi difficili. La difficoltà in cosa consiste? Nella necessità
intuitiva. Tradurre da una lingua come il greco, come il latino, esige
un salto intuitivo dalla successione delle parole al senso complessivo
di ogni periodo ed è quello l'esercizio più importante, per lo meno
pari a quello che si determina nello studio della matematica,
assolutamente unico e insostituibile e sicuramente complicato anche
per i docenti, i quali non è detto che siano allenati necessariamente
a questa ginnastica straordinaria che si ripropone per l'interprete
dinanzi a ogni pagina: ogni pagina nuova, in quelle lingue, richiede
da chi le affronta questa elasticità; crearsi nella mente il senso
generale che dà un senso a tutti i pezzi, che presi ciascuno per sé
non significano nulla. Posso fare la traduzione simultanea di una
lingua vivente se faccio l'interprete alle Nazioni Unite, ma non potrò
mai fare la traduzione simultanea di un testo greco o latino, mettendo
in fila tutte le parole che mi trovo davanti. È quel salto,
quell'intuizione necessaria grazie alla quale ci si addestra: perché
quanto più si ripete questo esperimento aiutandosi con traduzioni, con
l'aiuto di docenti che ci guidano e così via, tanto più questo viene
agevolmente compiuto. Ecco, questo è un procedimento mentale secondo
me entusiasmante, di grandissima utilità, rispetto al quale il
problema del «a che mi serve?» perde qualunque significato, perché se
io l'ho fatto per alcuni anni della mia carriera scolastica e poi farò
il medico, o l'ingegnere o farò l'artista di teatro, quell'esercizio
mi sarà stato preziosissimo, quale che sia il mio abituale impiego di
quella elasticità mentale che avrò conquistato. Ecco perché credo che
la questione si ponga in termini non di banale, di empirica,
utilitaria riscossione di vantaggi, ma in termini di addestramento
mentale, che è forse la cosa più importante cui la scuola può sperare
di giungere. Ecco perché ho detto che la dolcezza pedagogica rallenta,
perché la dolcezza pedagogica ritarda lo sviluppo delle persone, in
quanto lo sviluppo è uno sviluppo attraverso un tirocinio, una
disciplina, un'autolimitazione, una capacità di proporsi degli
obiettivi e raggiungerli, l'esatto contrario della dolcezza; la
dolcezza è in fondo l'utopia, la pura utopia. L'utopia è quella di
Giambulo, in Diodoro Siculo, in cui si immaginano persone ferme sotto
alberi da cui i frutti cadono spontaneamente e vengono colti senza
fatica. È un sogno dell'umanità, l'età dell'oro, ma l'età dell'oro è
soltanto un'idea utopistico-letteraria, non è un programma politico e
neanche un obiettivo. Quindi la dolcezza è veramente il contrario di
ciò che forma e fa maturare le persone. Il caso specifico che ho
illustrato prima - perché il campo che ci riguarda è quello dello
studio del mondo antico, toccando la questione più delicata, la
difficoltà linguistica - è l'esempio a mio avviso più eloquente di
come una pedagogia non demagogica dia frutti e come invece l'altra sia
sostanzialmente tautologica rispetto all'esistente. Problemi di questo
genere, impostati così, possono sembrare ostentazione di severità o di
rigore. Non c'è nulla di ostentativo in questo, c'è la riflessione che
è anche ormai un bilancio, perché noi abbiamo alle spalle decenni di
storia della scuola e di pratica scolastica e ci siamo, credo, tutti
resi conto dell'impoverimento contenutistico, dell'aver realizzato un
prodotto alla fine meno valido, più povero, che sa meno cose, che sa
meno bene muoversi nel mondo, che non ha parametri mentali, fra i
quali c'è l'autolimitazione, la capacità di autolimitarsi e, quindi,
di avere un rapporto corretto con gli altri. Decenni di esperienza ci
fanno vedere che il risultato è stato scadentissimo. Allora, tornare
indietro è sempre una ginnastica mal vista, ma certamente battere
strade completamente diverse da quelle che si sono rivelate perdenti è
saggia politica.
Torniamo all'intento teorico di questa conversazione. Con quali
argomenti si può tentare di 'convincere' uno studente, che affronta la
scelta dello studio universitario da intraprendere, a optare per una
disciplina del settore umanistico? E poniamo che questa scelta cada su
una facoltà di Lettere (magari proprio su Lettere classiche, come si
diceva un tempo); alla reazione quasi certamente inorridita di chi
apprende la (nefasta!) notizia, cosa si può opporre, come si può
argomentare concretamente?
Le riflessioni fatte fin qui, credo, tolgono di mezzo anche il falso
problema della utilità, che è un argomento che spesso torna nella
riflessione. Torna soprattutto nelle famiglie, perché le famiglie
incombono sui loro rampolli e instillano nella loro testa, magari per
ragioni anche comprensibili, il criterio utilitaristico: scelgo una
scuola che mi dia un riscontro immediato ed evidente e scredito quella
che, invece, questo risultato non me lo dà. Qui però si vorrebbe fare
un piccolo chiarimento, che non credo sia del tutto ovvio. È noto che
nella storia delle strutture educative dei Paesi europei che hanno una
certa somiglianza nelle strutture stesse (Francia, Germania, Italia
per tanto tempo, dalla metà dell'Ottocento in avanti, più o meno hanno
avuto un sistema scolastico simile), in questi nostri Paesi è
facilmente documentato il fenomeno per cui le scuole di carattere
immediatamente tecnico erano le scuole delle classi popolari; percorso
più breve, sbocco immediato in un lavoro di carattere, avrebbe detto
Croce, banausico, cioè essenzialmente connesso alla fatica fisica, ad
un impiego di carattere prettamente subalterno-dipendente, lavoro
nobilissimo, ma naturalmente alla fine obbligato sbocco per alcune
classi e non per altre, mentre i licei, in particolare quello
classico, erano invece il percorso e poi lo sbocco di classi medio-
alte, che si potevano permettere lo studio cosiddetto inutile, nel
senso alto e filosofico della parola, al seguito del quale c'era
l'università, al seguito della quale c'erano le professioni. Quindi,
l'ordinamento sociale aveva nella scuola in certo senso la sua cellula
di partenza e anche i suoi percorsi già preordinati. Non deve essere
però dimenticato che proprio le classi povere, costrette più o meno
dalla dinamica sociale a scegliere in un certo modo, se consapevoli
anche in minima parte, guardavano con desiderio e nostalgia alla
scuola cosiddetta inutile. Il paradosso dinanzi al quale noi ci
troviamo è che nelle classi medio-alte si è fatta strada l'idea che
l'inutile scuola di carattere storico-filosofico-contemplativo va
sostituita con una scuola di immediata utilità. È un paradosso. Coloro
che socialmente avrebbero anche la possibilità di concedersi questo
piacere neutrale e pratico si sono così imbarbariti da sognare una
forma scolastica minore, più povera e quindi, in ultima analisi,
perdente. È un sovvertimento. Si diceva un tempo, anche Concetto
Marchesi l'ha detto quando difendeva il latino: il proletario desidera
che suo figlio lo sappia il latino. E noi siamo nel paradosso che
invece il benestante dice «Ma a che mi serve questa cosa inutile?»,
avendo dell'utile e dell'inutile un'idea estremamente banale e povera.
Questo chiarimento serve a sbaraccare i pregiudizi più forti con cui
abbiamo a che fare quotidianamente. Poi c'è un altro aspetto che credo
rimanga in ombra; che cioè il concetto di utile e inutile stranamente
si concentra soltanto su alcuni rami del sapere. Per esempio, non c'è
nulla di più inutile della musica, non c'è nulla di più inutile della
logica, ma nessuno si permetterebbe di dire «Rimuoviamo la musica,
rimuoviamo la logica». Allora, perché mai soltanto alcune cose cadono
sotto la categoria, sotto la mannaia dell'inutile? Evidentemente per
una non conoscenza o per una pessima conoscenza. Ai giovanissimi che
si pongono queste domande - perché comunque è più interessante
convincere loro, che le persone già corrotte dall'esperienza - va
spiegato esattamente questo, che essi forse addirittura naturaliter
vanno cercando delle cose inutili nelle quali credono e allora il
campo dell'inutile nobile, che, in ultima analisi, è molto utile, va
dilatato, rimirato in tutta la sua ampiezza.
Rispetto alle materie umanistiche, alla sua materia per esempio,
nell'attuale organizzazione universitaria qual è il senso della laurea
in tre anni (ed eventuali altri due)? In che cosa differisce dalla
precedente in quattro anni?
Il veleno di questi pseudoconcetti è penetrato negli ordinamenti
universitari: mi riferisco, appunto, alla riforma infausta denominata
tre + due, che sembra una formula pitagorica, ma ormai per intenderci
la chiamiamo così. Anche qui il discorso da farsi è forse un po' più
lungo e accidentato. Poiché io mi considero una persona che ha sempre
scelto politicamente sul versante della sinistra, e, ad esempio, penso
che annullare l'esperienza storica del comunismo sia una follia
eccetera, mi concedo il diritto di dire che la sinistra italiana, ma
non solo italiana, ha colpe spaventose nella demolizione
dell'istituzione scolastica e universitaria, e che ciò è accaduto per
un male inteso concetto di democrazia. E purtroppo è l'esperienza
ormai semisecolare che abbiamo alle spalle che dimostra ciò.
L'operazione è stata duplice, ancora una volta sono state le élites
privilegiate a dare il colpo di grazia, perché le élites privilegiate
erano quelle che nelle università dei tardi anni Sessanta avevano
fruito al meglio di quello che quel sistema poteva dare e hanno
cominciato a sdottrinare che lo si dovesse demolire in omaggio a una
male intesa idea d'uguaglianza, che non era uguaglianza, era un regalo
avvelenato. Non era uguaglianza, perché l'uguaglianza dell'ignoranza è
una pugnalata alle spalle, non è un dono e neanche un diritto. Questo
appare un po' polemico detto in questa maniera, ma secondo me rende
bene il concetto.
Su due piani si è svolta la cosa: parte dall'università, investe
naturalmente la scuola (scuola media, licei eccetera) e innesca un
circuito per cui dopo un po' di generazioni l'università si riempie di
soggetti completamente diversi da quelli che avevano messo in moto
questa pseudorivoluzione culturale, di modo che questo circuito
perverso si autoalimenta in maniera esponenziale. A questo punto sorge
nel legislatore insensato (mi riferisco a Luigi Berlinguer) il
desiderio di trasformare questa realtà, via via deteriore, in
normativa e con un procedimento abbastanza scorretto (mi riferisco
agli anni 1997, 1998, gli anni in cui rapidamente furono stabilite
queste nuove normative), cioè sul falso presupposto che già in Europa
le cose stessero in quei termini, il che non era affatto vero; fu
creata di colpo (cosa mai successa prima, i processi sono sempre stati
lenti, graduali, inevitabilmente, le persone non si evolvono a colpi
di cannone) una dicotomia, una divisione in due del percorso
universitario. Perdente in tutti e due i casi, perché quello triennale
è meno che un post liceo, programmaticamente tale, con programmi in
cui si misura persino il numero di pagine la cui conoscenza si può
richiedere agli allievi; e quello biennale è troppo corto per essere
veramente specialistico. Quindi, è una dissipazione complessiva di
cinque anni, rispetto ad un ordinato e razionale percorso: parlo, per
esempio, di facoltà di carattere umanistico di quattro anni in cui la
gradualità era scaglionata su un arco di tempo sufficiente per
giungere alla fine ad una frequentazione dello specialismo che è il
momento più alto nella carriera di una persona che ha la buona
occasione di frequentare l'università: il momento più alto da laureato
in attesa di posto nella scuola, quei mesi passati a concludere la
propria carriera universitaria rimanevano come un ricordo importante e
metodicamente utile quale che fosse poi la scelta più o meno
obbligata, scuola media inferiore, ginnasio, quello che sia. Aver
fatto una vera tesi di laurea dopo un percorso che si è fatto via via
sempre più acuminato e coerente era un'esperienza unica, un grande
privilegio. Ora questo è scomparso, nel senso che sia la prima che la
seconda fase sono degli arrangiamenti frettolosi: la prima quasi un
parcheggio e la seconda una corsa disperata nell'illusione di colmare
un ritardo che diventa a quel punto incolmabile.
Ma direi che il disastro (che si è misurato facilmente, adesso è quasi
ovvio sentire parlare criticamente e solo criticamente di questa
esperienza) non dico che sia in via di risanamento, sarei troppo
ottimista, ma certamente è nell'occhio critico di quasi tutte le
istituzioni universitarie. Le più forti, la medicina e la
giurisprudenza, ne sono rimaste fuori e questo forse è sintomatico.
Medicina per ovvie ragioni, nel senso che uno che fa la laurea
triennale non ha neanche le caratteristiche del paramedico o
infermiere: è un nulla e basta. Nel caso della giurisprudenza c'è
stato, come sempre da quelle parti, un veicolo fortissimo di difesa e
cioè gli ordini professionali e gli sbocchi: avvocato, procuratore,
giudice comportano concorsi per i quali il percorso triennale non
serve a nulla, non è neanche riconosciuto. E quindi fatalmente tutte
le facoltà di giurisprudenza hanno ripristinato, prima de facto poi de
iure, l'ordinamento precedente. Sarà un caso? Certamente no, vuol dire
che dove il problema aveva un risvolto pratico allarmante, lo si è
fermato in tempo.
Nel caso nostro, nelle facoltà di Lettere, credo che il risultato sarà
che il cursus universitario diverrà di cinque anni. Così l'illusione
puerile secondo cui il mercato del lavoro aspettava ansioso i
triennalisti perché altrimenti ci sarebbe stato un gaspillage delle
forze, delle risorse umane del Paese si è trasformato in un
allungamento del percorso, e quindi in un ritardo. E questo direi che
è stata una nemesi storica sulla demagogia di sinistra, di cui la
sinistra è stata la vittima; si paga tutto nella politica, la politica
è verità, quindi si paga tutto, gli sbagli in primis.
Se si volesse scegliere la ricerca, quali settori si aprono per uno
sbocco lavorativo, e con quali tempi, nell'ambito degli studi
classici?
La domanda ha una zona d'ombra che la insidia, perché diversamente da
altri Paesi d'Europa (come Francia, Inghilterra, Germania che conosco
meglio, ma penso che la Spagna sia uguale) noi abbiamo ancora una
vastissima rete scolastica di licei, dove il greco e il latino sono
materie obbligatorie (usiamo questa parola malvista). Cosa che non è
più negli altri Paesi europei. Il che, da un certo punto di vista,
potrebbe favorirci in linea teorica, perché la domanda d'insegnanti di
quelle discipline dovrebbe essere continuamente alimentata dal fatto
che c'è questa rete così ampia e che gli ordinamenti sono rimasti
sostanzialmente gli stessi, nonostante i licei sperimentali.
Nonostante questo, la maggioranza delle istituzioni scolastiche
esistenti comporterebbe un notevole bisogno di nuovi insegnanti capaci
di insegnare queste discipline; quindi quello sbocco lavorativo
parrebbe per noi assicurato.
In realtà noi siamo il "caso italiano", noi riusciamo a realizzare
quello che in Francia parrebbe impossibile (ci rimproverano di non
essere sufficientemente cartesiani ed è vero, non lo siamo per nulla);
abbiamo realizzato un insegnamento apparente del greco e del latino
nelle scuole. Questo è stato il nostro capolavoro. Con grande disagio,
perché poi questo diventa una scuola di corruzione: lo studente, lo
scolaro è sempre in grado di capire tutto, non è vero che non capisca.
A rigore si potrebbe dire che quando si svolgono le interrogazioni
l'unico che dà il voto giusto è lo studente stesso, solo che non lo
dice, ma è così. È scuola di corruzione perché se lo spettacolo
offerto è di fingere di praticare un insegnamento che di fatto non
c'è, fingere di sottoporre alla prova di traduzione, per esempio alla
maturità classica, e di fatto fornirla sotto banco, il che è risaputo.
La prova viene elusa, nel momento stesso in cui viene fatta, questa
che, ripeto, è una scuola di corruzione toglie gran parte del valore
che potrebbe avere la sopravvivenza da noi di quello che altrove
manca. Ed è un peccato, anche per una ragione empirica; mi è accaduto
di scriverlo su qualche giornale nei mesi scorsi. Ci sono, per
esempio, nel mondo occidentale, istituzioni, biblioteche, archivi dove
conoscitori non troppo elementari delle lingue antiche troverebbero un
posto di lavoro necessario. Leggere e capire il frontespizio di
un'opera pubblicata nel Cinquecento, nel Seicento o nel Settecento,
tutto scritto in latino con molte parole in greco, tra breve sarà come
la lettura dell'arabo per funzionari che nella loro esperienza
scolastica non hanno praticamente più quelle conoscenze. Che cosa
succede? Succede il paradosso: Oxford, per esempio, Londra, ma
soprattutto la Bodleiana hanno una grande quantità di papiri greci,
letterari e non. Ma le scuole, le università del Regno Unito non
producono più un numero sufficiente di persone in grado di leggere
queste lingue con una certa profondità, e quindi chiedono fuori, e
tanti italiani che non trovano lavoro in Italia si fanno avanti per
consulenze pro tempore nell'ambito di queste istituzioni. Perciò mi è
capitato di scrivere che noi esportiamo papirologi, che sembra
un'enormità (non sono numeri altissimi), però è vero. Allora è un
peccato se, avendo noi questa base più larga dovuta appunto
all'ordinamento tuttora vigente, la svuotassimo facendone una scatola
vuota, in cui l'insegnamento impartito è apparente. Sarebbe
autoingannarci e disperdere una ricchezza fruibile su un mercato
imprevisto, cioè quello della esportazione di competenti in Paesi che
per le scelte che hanno fatto, quei competenti non li hanno più. La
Francia aveva una grandissima tradizione di licei meravigliosi; le
riforme, da Faure in avanti, hanno ristretto talmente il novero degli
scolari capaci di conoscere queste lingue, queste discipline, da
metterli in una seria difficoltà. Fuori dall'École nationale des
chartes, per esempio, dove ancora lo studio è tradizionalissimo, il
latino e il greco sono diventati un oggetto sconosciuto. La Francia
del Collège de France, di Francesco I, di Pietro Ramo: sembra un po'
una follia, ma la storia è andata in quella direzione. Siccome da noi
non è andata in quella direzione è un vero peccato che noi
ridicolizziamo, svuotandola, una ricchezza che comunque abbiamo. Mi
sono soffermato così a lungo su questo punto perché contrasto con
l'idea che non c'è sbocco per coloro che seguono nella scuola e
nell'università, come scolari di facoltà letterarie, questo tipo di
studi. Non c'è posto se questi studi vengono fatti così male che la
fruizione come mestiere di quelle competenze si vanifica. Non sono
così illuso da dire che poi ci sono le soprintendenze eccetera, perché
quello è un inganno demagogico; anzi, se c'è un ambito dove la
saturazione è totale, è proprio quello. Ultimo colpo di piccone su
tutta questa macchina è stato dato sempre dai nostri governanti
demagogici di sinistra, con l'invenzione delle famose SSIS e con la
demonizzazione del concorso. Il concorso, non per fare il laudator
temporis acti, se non è truccato (e allora c'è la magistratura forse
da invocare) è la forma più democratica di valutazione, dove tutti
siamo uguali dinanzi ad una prova. Ma invece, l'invenzione di questa
'baracca' in cui l'essere seduto in una sala per un certo numero di
ore ad ascoltare quasi sempre gli stessi docenti che si sono ascoltati
nei corsi universitari e al termine trovarsi detentori di un titolo,
questo sì che è un inganno. Quindi, caldeggio con forza, anche se
questo può sembrare assolutamente utopistico, un ritorno ad un sistema
di prove che per essere riferite al vero merito delle singole persone
sono autenticamente democratiche, oltre che utili nel determinare le
scelte.
E può essere che, lanciando attraverso l'Enciclopedia Italiana questo
messaggio ai nostri governanti, noi otteniamo quel successo che altre
volte non ci ha arriso.
Cervia, 14 aprile 2007
Pubblicato il 10/5/2007